“Le trappole del Web: quando il gioco diventa letale”

Chiunque di voi ricorderà sicuramente il capolavoro cinematografico di Henry Joost e Ariel Schulman – “Nerve”, scritto da Jeanne Ryan e interpretato da Emma Roberts. Si tratta di un film che attraverso un taglio adrenalinico, descrive una realtà virtuale ormai alla deriva, plasmata dall’avvento di un gioco, dal cui nome deriva il titolo del film.

Alcuni ragazzi cercano di apparire a tutti i costi nel World Wide Web per riempire le mancanze e l’inerzia che sovrasta le loro vite, come ad esempio il personaggio di Sidney, amica di Ariel, la protagonista. Il gioco cinematografico visualizzato da Henry e Ariel, in cui i players giocano, descrive a tutti gli effetti una problematica ben lontana dalla realtà virtuale, quel lato oscuro del Web in cui il binomio “on-line” e “on-life” finisce per assumere un ruolo univoco, alla cui base intercorre la presenza di pericolose sfide all’ultimo sangue, giochi letali, corse adrenaliniche, prove senza tempo. Il ritmo incalzante di ogni sfida a cui i protagonisti devono far fronte, riesce a tenere inchiodati noi spettatori man mano che il film avanza.

Nonostante ciò, il capolavoro di Jeanne Ryan, rappresenta a tutti gli effetti la descrizione sistematica di una delle realtà più drammatiche del web: il network suicide.

Ad aggiungersi a questa realtà urbana è il fenomeno di “Jonathan Galindo”, giunto in questi giorni all’attenzione dei media italiani, scatenando l’indignazione del mondo. Si tratta di un gioco che vede protagonista un personaggio travestito da cane, simile al rinomato Pippo della Disney, ma con sfumature piú inquietanti. Da quanto si evince dalle prime indagini, si tratterebbe di un adescatore della rete che avrebbe attuato, attraverso sfide psichedeliche una vera e propria “caccia alla vittima”: di fatto, l’autore cercherebbe di adescare bambini o ragazzi minorenni, convincendoli a cimentarsi in giochi sempre più pericolosi, spingendoli inevitabilmente al suicidio.

A dar prova di ciò è il caso di Chiaia, un quartiere di Napoli, dove un ragazzo di 11 anni si é lanciato dall’undicesimo piano del suo palazzo. Da quanto si evince dalle indagini si tratterebbe di suicidio. Questo è almeno ciò che trapelerebbe dalle ultime informazioni.

Il ragazzino, prima di uccidersi ha lasciato un biglietto: “mamma, papà, vi amo ma seguo l’uomo con il cappuccio nero”.

Non si possono definire con certezza le motivazioni alla base del suo gesto, ma dal messaggio lasciato dal bimbo, si sospetta che possa essere finito nel vortice di Jonathan Calindo, insieme a tanti altri suoi coetanei i cui nomi ad oggi restano ancora ignoti.

Storie terrificanti, Creepypasta, giochi pericolosi che si incuneano nelle fragilità degli adolescenti, generando nella loro enfasi arcana un terrorismo psicologico dal quale tutti noi, indistintamente, dovremmo prendere le distanze.

Un fenomeno sotterraneo che vede protagonista da un lato, la follia di ragazzi senza futuro, la cui personalità psicopatica determina nella sua tacita idolatria, il seppellimento delle facoltà cognitive delle vittime e la conseguente inumazione della propria personalità.

Dall’altro la perdita di controllo e l’asservimento delle prede, sulle quali prende piede il disegno criminoso messo in atto dal manipolatore. Il dominio incontrollato di questi abili giocatori si incunea, di fatto, nei vuoti e nelle mancanze della preda: assenza di sostegno da parte dei genitori, dimensione di solitudine con conseguente alienazione, ostracismo, il bisogno di ribellione tipico degli adolescenti, ferite profonde che neanche il piú abile degli psicologi sarebbe in grado di sanare.

Alla negligenza del corpus familiare, dobbiamo apporre, ovviamente, anche l’uso improprio del Web che non tocca solo i ragazzi e gli adolescenti, ma anche gli stessi genitori che il più delle volte, sviluppano una percezione alterata di ciò che è la realtà che li circonda.

Incatenati dalle minuzie quotidiane, dal lavoro, dalle bollette da pagare e dai conflitti familiari, tendono a trascurare il fatto che spesso, oltre alla baby sitter, ai videogame o alla “paghetta settimanale” volti a compensare l’assenza e il disimpegno, i propri figli abbiano bisogno di una figura amorevole, presente, umana che non necessiti di essere sottentrata al bene materiale/tecnologico, ma che osservi, dialoghi, si emozioni, tenga per mano e stretto a sé ogni singolo istante e momento di vita.

Abbiamo bisogno che il tablet venga sostituito dalle carezze, dai baci, quei baci che un figlio da ad una madre prima di varcare la porta di casa per andare a scuola. Abbiamo bisogno che gli sguardi attenti di un occhio benevolo prendano il posto delle disattenzioni; bisogno di ciglia che si posino sulle nostre spalle, sulla nostra testa, testimoni di un amore inesauribile che dona vita, anziché distruggerla. Abbiamo bisogno che gli abbracci sostituiscano gli schermi, la cui luce é spesso troppo accecante per permetterci di vedere cosa accade intorno a noi: una lacrima che cade, un livido sul volto, un graffio di troppo, l’ansia di un respiro affannato, un grido di aiuto.

Spesso, la noncuranza è alla base di ogni dramma, così come l’incapacità di dire NO a quei cosiddetti “capricci” infantili/adolescenziali, frutto di una mente ancora troppo acerba per essere in grado di distinguere il bene dal male, cosa è il meglio e cos’è il peggio.

Saper dosare e monitorare l’uso della tecnologia nella vita di tutti i giorni è fondamentale per la salvaguardia della nostra incolumità. Imparare a negare l’utilizzo improprio e prolungato dei social, dei tablet e di tutti i dispositivi elettronici che ci sganciano dalla realtà sommergendoci volente o nolente in un mondo virtuale fatto di squali pronti a tutto per sbranarci, ne va della nostra vita e di quella dei nostri figli.

Un no detto oggi sarà un grazie che riceveremo domani.

Ilaria Di Roberto