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VADO AL MASSIMO: ADRIANA LECOUVREUR

“Adriana Lecouvreur” di Francesco Cilea esordisce nel 1902. Siamo al Massimo nell’aprile del 1904, due anni dopo la prima al Teatro di Milano, alla presenza del compositore e sotto la direzione di Cleofonte Campanini, con interpreti Enrico Caruso nel ruolo di Maurizio e Angelica Pandolfini in quello di Adriana.

 

Il 22 ottobre 2017 siamo di nuovo nel capoluogo siciliano, dove Cilea nel triennio 1913-1916 era stato direttore del Conservatorio e di questo periodo aureo Palermo ha memoria, riservando grandi attenzioni ad Adriana Lecouvreur, facendola comparire costantemente nei cartelloni del Massimo teatro cittadino con presenze di punta che ne hanno segnato la storia: dalla prima Adriana, la mascagnana Gemma Bellincioni, a Giuseppina Cobelli nel 1936, a Pia Tassinari nel ’45, a Mafalda Favero nel ‘50, poco prima del suo ritiro dalle scene; da Magda Olivero nel ’59 ad Antonietta Stella nel ’66, amata dal pubblico siciliano, da Giovanna Casolla nel 1988, a Raina Kabaivanska nel ’96, fino alla compianta Daniela Dessì in occasione dell’ultima ripresa nel 2009.

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©Rosellina Garbo

Questa sfilza di artiste mastodontiche basta ad illustrare il clima di spasmodica attesa che ha preparato il debutto palermitano di Angela Gheorghiu, in un ruolo che ha di recente sigillato la sua fama in occasione della centocinquantesima rappresentazione dell’opera sul palcoscenico del Covent Garden. La Gheorghiu è “Splendida! Portentosa!… Diva!”; un tenue arpeggio in pianissimo dell’orchestra accompagna l’ingresso in scena di Adriana, negli abiti orientali di Rossane, che intona l’aria “Io son l’umile ancella del Genio creator..” (Andante con calma), la cui limpidissima melodia diviene il motivo ricorrente legato alla protagonista. Va subito detto che, pur attestandosi sugli altissimi livelli attesi, la magistrale performance della Gheorghiu è stata eguagliata dalle prestazioni di alcuni coprotagonisti; La Musa rumena sembra a tratti assente nel registro medio-basso, come se tardasse a carburare e le esplosioni sonore risultassero disinnescate, quasi che fosse in sordina e serbasse la potenza vocale per i momenti pateticamente nodali degli atti successivi e nel primo vestisse semplicemente i panni della sociétaire della Comédie-Francaise, alle prese con le prove del Bajazet di Racine, per cui verrebbe da chiedersi se la il contegno usato non sia studiato e eccessivamente manierato allo stesso tempo.

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©Rosellina Garbo

 

 

Nel secondo atto, quello della Grange-Batelière, nei pressi dell’Opera di Parigi, dove è ubicata la villa del Principe di Bouillon, l’artista è costretta ad uscire gli artigli e il fiato nello scontro con l’imperiosa Principessa di Bouillon di Marianne Cornetti; ritrova così slancio ed energia e appicca quel fuoco incandescente che deve animare il personaggio e che viene alimentato dai continui duetti tra le rivali. La forza scenica e canora della protagonista è massima negli ultimi due atti; lo scambio di battute sul bracciale della Principessa, perso durante la fuga dal villino e mostrato da Adriana su richiesta degli ospiti e della rivale, avvia la ricerca di un fraseggio volto a sottolineare il potere vendicativo della parola che campeggia poi nel monologo di Fedra, capolavoro assoluto perché più unica che rara è la possibilità di sentire così chiaro e dosato il crescendo dal declamato al canto fino al finale “Chiedo di ritirarmi..” che ha il sapore della vendetta e della catastrofe imminente. L’artista si rivela un’attrice straordinaria, cimentandosi in travolgenti esempi di “recitar cantando” spesso declamati, facendo capire come non sia automatica l’equivalenza attrice-cantante.

Prodigiosa nell’ultimo atto, quando giungono a maturazione l’eleganza, il colore timbrico arricchito da un vibrato preciso e stentoreo che rendono al meglio il travaglio della donna e dell’artista, unendo lo charme, la sensualità e la vulnerabilità che costituiscono la principale attrattiva del personaggio, non più “umile ancella” del poeta, ma tragedienne rapinosa che mozza il fiato con il lapidario explicit “Ecco la luce”. La protagonista è circondata da un cast con almeno due nomi d’eccezione: si è accennato a Marianne Cornetti, nel ruolo della Principessa di Bouillon furiosa di gelosia e di passione; tellurica forza della natura, dotata di un timbro imponente, dalle risonanze cavernose, capace di far tremare le fondamenta degli abissi (la sfera celeste la lasciamo all’angelica Adriana) nella sua avvolgente e veemente “vagabonda stella d’Oriente”. Non mi sorprende che la Gheorghiu abbia dovuto alzare i toni per reggere il confronto con la Principessa ; il rischio di finire travolti da quell’uragano di impetuosità sonora, potenza vocale e di emissione, che bene si attagliano alla ferinità del personaggio, è concreto, ma si è tradotto in una lotta tra giganti che non decreterà mai una vincitrice.

 

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©Rosellina Garbo

Grande plauso va al Michonnet di Nicola Alaimo, che porta in scena un’invidiabile maturità interpretativa in cui anche il physique du rôle sembra coincidere con le frustrazioni dell’umile direttore di scena, appagato e candido professionista, uomo profondamente frustrato e infelice. La presenza scenica regolata si fonde a una generosità vocale, a una sontuosa cifra che trova nel canto di conversazione l’ultimo traguardo vittoriosamente conquistato: per questo è amico e amante, fratello e padre, presenza autorevole e rassicurante, che meritatamente conquista un successo personale e graduale nel corso della recita.
Meno convincente il Maurizio di Martin Muehle, in cui già dalle prime note dell’andante “la dolcissima effigie” invano ci aspettiamo variazioni e sfumature, estranee a quell’impostazione di voce che fa leva esclusivamente sulla chiarezza del timbro a tratti troppo metallico, senza darsi pena della sua coloritura e intensità funzionali ad un’interpretazione che ho visto emergere solo quando il Conte di Sassonia tiene tra le braccia l’amata morente, troppo tardi quindi.

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©Rosellina Garbo

Non del tutto convincente la coppia composta dal Principe di Bouillon di Carlo Striuli, con qualche segno del tempo dovuto all’onerosa carriera, e dall’Abate di Chazeuil di Luca Casalin, non sempre brillante. Molto più brillante rispetto al duo precedente il quartetto dei comédiens, composto dalle funzionali voci maschili di Angelo Nardinocchi (Quinault) e di Francesco Pittari (Poisson) e da quelle femminili di Inés Ballesteros (M.lle Jouvenot) e Carlotta Vichi (M.lle Dangeville) adamantine e squillanti. Da menzionare, infine, un’assoluta novità nel corso del terzo atto: il balletto coreografico rimane, nelle mani di Giuseppe Bonanno, una citazione d’autore del divertissement francese settecentesco affidata all’eleganza di Fabio Correnti, Elisa Arnone e Francesca Davoli; mentre il coro quasi lo ammanta con leggerezza e trasparenza eteree, sensibile alle indicazioni dinamiche della direzione di Piero Monti.

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©Rosellina Garbo

Occorre dire del buon lavoro eseguito dall’orchestra sotto la direzione di Daniel Oren. La sua familiarità con il repertorio italiano non lo ha portato a cercare la teatralità struggente; assecondare il gioco letterario del teatro nel teatro, presente nell’ibrido libretto di Colautti, avrebbe comportato la moltiplicazione dei piani sonori, mentre sullo sfondo si percepisce l’assimilazione della lezione wagneriana dei motivi conduttori. Si tratta di un unico filo musicale, un Lied infinito potremmo dire, che dall’adagio iniziale si allunga e annoda sull’adagio in pianissimo delle battute finali e nelle due pagine di sola orchestrazione (metà del secondo atto e inizio del quarto), dove ha mano libera, il direttore si diletta ad enfatizzare gli empiti melodici senza mai sovrastare il canto, bensì tonificandolo e permettendo agli interpreti di crescere in potenza e intensità dove necessario. La bacchetta dell’israeliano è una penna rossa che evidenzia i punti clou in corrispondenza dei quali agli artisti è richiesta una particolare cadenza, un fraseggio che ricalchi il discorso del concertato con l’inclusione di elementi personalizzati che, a parte pochissimi casi isolati, non sono venuti sempre fuori alla perfezione, non nel modo predisposto dal direttore stesso immagino.

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©Rosellina Garbo

La regia di Ivan Stefanutti decide di prescindere dalla rievocazione settecentesca per lavorare sul periodo storico in cui l’opera vede la luce e riflettere sul fenomeno del divismo, che proprio in quel torno d’anni passa dalla scena teatrale a quella del cinema muto. Adriana Lecouvreur diventa così sorella maggiore di Eleonora Duse, protagonista di una sontuosa pellicola in bianco e nero in cui la strepitosa eleganza dei costumi valorizza gesti, posture, atteggiamenti di sicuro impatto sul pubblico. Angela Gheorghiu perfettamente entra nelle vesti della donna di spettacolo, non soltanto sfoggiando quattro mise con pennacchi, piume e strascico che ne esaltano la figura, ma soprattutto assumendone i tratti, attraverso l’identificazione alle dive di primo Novecento. In questo senso è suggestivo il finale con il delirio di Adriana che quasi confonde la sua morte reale con quella fin troppe volte rappresentata sulle scene; mentre una gigantografia di Lyda Borelli, maestosa sullo sfondo del boudoir dell’artista, si accende di tenui colori pastello. E diventa emblema della donna di successo amata da tutti e uccisa dall’amore.

Cristina Scaffidi Fonti
Palermo, 22 ottobre 2017

DAL WERTHER: IL “MASSIMO”

Una fanciulla che si aggira tra il pubblico abbigliata in mise anni ’40, appeso al collo un vassoio che contiene una sfilza di pacchetti, distribuisce volantini che rappresentano una locandina vintage. I personaggi si aggirano alla ricerca di un posto sulle note iniziali del preludio. La cinepresa è puntata sulla platea, si abbassano le luci e inizia il countdown: stasera, 31 maggio, si proietta il Werther di Massenet. Continua la lettura di DAL WERTHER: IL “MASSIMO”