BREXIT DELLA GRAN BRETAGNA

La Gran Bretagna ha deciso con un referendum di uscire dall’Unione Europea sbattendo la porta. E’ la dimostrazione tangibile di quanto danno possano arrecare gli egoismi nazionalistici, quando questi hanno la meglio rispetto ad una visione globale dello stare insieme.

Ma per capire meglio come si è addivenuti a ciò, è bene fare qualche passo indietro. Illuminante in tal senso è la disamina che ne ha fatto qualche settimana fa, prima del voto, il giornalista londinese Gwynne Dyer, esperto di politica internazionale.

Alla fine della seconda guerra mondiale, nel 1946, il Regno Unito, attraverso Winston Churchill, invocò la creazione di “una struttura sotto la quale vivere in pace, in sicurezza e in libertà… Una specie di Stati Uniti d’Europa”. Una decina di anni dopo, lo stesso paese rifiutò di entrare in questa struttura quando i suoi vicini europei cominciarono effettivamente a costruirla. Come definireste un paese del genere?

Nel 1961 cambiò di nuovo idea e chiese di entrare nella Comunità economica europea (Cee), un obiettivo raggiunto alla fine nel 1973 con il governo del primo ministro conservatore Edward Heath, salvo poi esigere di rinegoziare gli accordi di partecipazione e tenere un referendum per decidere se stare dentro o fuori la Cee due anni dopo, sotto il governo laburista. Che ne pensate?

Sempre lo stesso paese pretese un’ulteriore rinegoziazione sotto il governo conservatore di Margaret Thatcher nel 1984, per poi decidere di restare fuori del progetto della moneta unica quando i paesi della Comunità europea hanno firmato il trattato di Maastricht nel 1992.

Un atteggiamento petulante

E cosa direste di quel paese se nel 2013 un altro primo ministro conservatore, David Cameron, avesse imposto l’ennesima rinegoziazione dei termini d’adesione a quella che oggi si chiama Unione europea, promettendo di indire un altro referendum?

Ambivalente? Capriccioso? Forse l’aggettivo che sintetizza meglio l’atteggiamento del Regno Unito nel suo rapporto d’amore e odio con il progetto europeo è “petulante”.

Il 23 giugno si terrà un altro referendum sulla permanenza del Regno Unito nell’Unione europea. Il primo ministro Cameron non vuole davvero lasciare l’Unione. Se nel 2013 ha promesso il referendum è stato soprattutto per rubare voti allo United Kingdom independence party (Ukip), che invece la vuole davvero lasciare.

Ma Cameron non ha potuto ignorare la sua promessa dopo aver vinto le elezioni, perché metà del suo stesso partito vuole lasciare l’Unione europea. Il nuovo leader del Partito laburista Jeremy Corbyn è nella migliore delle ipotesi tiepido nei confronti dell’Unione, che considera fondamentalmente un complotto capitalistico che ha avuto alcuni effetti collaterali positivi. E i recenti sondaggi suggeriscono che l’esito del referendum è incerto.

I francesi comprendono meglio dei britannici i rischi di un’Europa divisa

Non è certo un buon periodo per l’Unione europea. Non ha risposto efficacemente all’emergenza dei profughi in arrivo dal Medio Oriente. Soffre di una bassa crescita e di un’alta disoccupazione croniche (nonostante il Regno Unito se la stia cavando piuttosto bene su entrambi i fronti). E sta diventando chiaro che l’adozione della moneta unica da parte di 19 paesi dell’Ue è stato un grave errore.

C’è quindi parecchia disillusione a proposito dell’Unione europea anche tra i principali paesi dell’Europa continentale, e alcuni temono che l’uscita di Londra rimetterebbe in discussione tutti gli altri accordi che hanno permesso la costruzione di questa struttura senza precedenti nella storia. Ma perché sono sempre i britannici i più scontenti?

Il passo falso di Cameron

Tutti i paesi dell’Europa occidentale hanno perso i loro imperi coloniali nei decenni successivi alla seconda guerra mondiale, e il Regno Unito non è l’unico a non voler rinunciare alle illusioni di grandezza. Anche la Francia crede di essere molto più importante di quello che è. Ma i francesi comprendono meglio dei britannici i rischi di un’Europa divisa, perché hanno pagato un prezzo molto più alto.

Il fatto è che la Gran Bretagna è un’isola. Quasi tutti gli altri paesi europei, a eccezione della Svizzera e della Svezia, hanno visto terribili guerre sul proprio territorio. Metà di essi sono stati occupati da truppe straniere per lunghi periodi. La Gran Bretagna invece non subisce un’invasione riuscita da quasi mille anni.

Londra non è la sola a considerare assurda la burocrazia dell’Unione europea e a vedere con fastidio i compromessi necessari a tenere in piedi il progetto. Ma è la sola, o quasi, a pensare che l’unità europea è una scelta di cui ogni tanto bisogna valutare i benefici economici e confrontarli con i costi politici e psicologici .

Soprattutto in Inghilterra c’è ancora l’illusione che il paese avrebbe un futuro migliore se fosse totalmente indipendente, libero dalla noiosa Unione europea, e che se la caverebbe da sola come una spavalda potenza economica globale. Al che non si può che rispondere: in bocca al lupo.

Questa visione romantica non è condivisa dagli scozzesi, i quali sicuramente si sfilerebbero se i voti degli inglesi dovessero far uscire il Regno Unito dall’Ue. Ma una Scozia indipendente farebbe fatica a essere ammessa nell’Unione europea, perché la Spagna non vorrebbe stabilire un precedente che potrebbe essere usato dai separatisti catalani per sostenere che anche la loro indipendenza non avrebbe conseguenze.

La maggior parte dei leader britannici ha fatto grandi sforzi per tenere a bada le eccessive ambizioni dei patrioti inglesi e per mantenere il paese in carreggiata. Cameron invece ha fatto un passo falso, e le conseguenze, per il Regno Unito e per il resto d’Europa, potrebbero essere gravi.”

Tale analisi ci fa comprendere meglio quanto è accaduto, derivando in buona sostanza da un euro-scetticismo mai sopito da parte del Regno Unito, e quanto sia pericoloso cavalcare i populismi. Sottoporre al voto questioni cosi importanti, tecnicismi di difficile comprensione da parte delle masse è un errore madornale. A mio modesto avviso alcune questioni dovrebbero essere sottratte al gioco referendario, non per sfiducia nella democrazia, ma per il semplice fatto che esse non possono soggiacere alla emotività dei momenti o alla facile e speculativa ricerca del consenso da parte di politici privi di “visione globale”, che cercano di cavalcare le singole proteste.

Purtroppo, negli ultimi anni, quello che più è stato messo in evidenza dell’Unione Europea, è l’aspetto “negativo”: i vincoli di bilancio, le quote che i singoli stati devono versare all’U.E., la limitazione della sovranità dei singoli Stati nelle scelte di politica economica, vista come un’ingerenza dell’Ente sovranazionale nelle politiche dei singoli stati membri,  e, da ultimo,  la “non condivisa” gestione dei profughi…

Non si è dato invece il dovuto risalto ai fattori positivi insiti nell’Unione: stabilità politica e monetaria, libera concorrenza, diritto di stabilimento, libera circolazione, intercambi culturali, pace, etc.  Ed anche perché, oggettivamente,  sino ad ora si è messo mano più ai vincoli che ai fattori di crescita, ai quali si deve cercare necessariamente di dare maggiore impulso, se  non si vuole che l’Unione Europea venga continuata ad essere vista da molti come una penalizzazione invece che come un’opportunità.

Ma si sa,  fa parte della natura umana esasperare le situazioni negative a discapito di quelle positive:  fa più rumore un albero che cade che una foresta che cresce !

Giuseppe Scaffidi Fonti