Il romanzo della storia di una vocazione: Il nome della rosa

“Nessuno è profeta nella sua Patria”, diceva già ai suoi tempi Gesù di Nazareth. E’ così indubbiamente anche per Umberto Eco, noto in tutto il mondo per il suo “Trattato di Semeiotica”, che istituisce la semeiotica contemporanea, per “La struttura assente” che lo ha preceduto, o, per “Il problema estetico in S. Tommaso d’Aquino” o, ancora, per “Sugli specchi”. Da noi, in Italia, lo si conosce semplicemente come un buon romanziere, forse più discusso di quanto meriti. E, in quanto tale, lo si conosce soprattutto per “Il nome della rosa”, un “giallo” ambientato nel medioevo e che avrebbe potuto essere più ossequioso della Chiesa. Si tratta, ovviamente, di valutazioni assai riduttive e che non rendono giustizia al nostro. Lo si può fare invece – almeno in parte – se si tenta una lettura diversa dalle tante proposte e peraltro possibili e lecite. Se si parte dal considerare l’autore anche quale autore della sua opera più importante, quella per cui è giustamente ammirato in tutto il mondo quale uno dei massimi filosofi viventi: “Il trattato di semeiotica”. L’autore è dunque un ricercatore di “semeion”, di semi, di segni di significati, di sensi: del Vero. Si tratta allora di vedere quali siano i semeion, di cosa essi siano segni, cosa significhino, quale senso essi abbiano, quale sia la verità. Una stessa realtà infatti può essere vista da piani diversi, a volte inconciliabili, e dunque avere al tempo stesso significati altri. E’ così anche per “Il nome della rosa” che è indubbiamente anche un giallo in ambientazione medioevale, ma che come tutti i grandi romanzi offre ben più di un piano di lettura. La semplice logica del giallo infatti già annaspa alquanto ed è alquanto in difficoltà semplicemente per condurci al colpevole e già per questo abbisogna di altri piani quali quello storico politico e culturale religioso. Il coglimento pieno dei moventi, delle motivazioni e dunque il senso vero rinvia ad un piano ulteriore: quello metafisico-mistico, la concezione del DUM (Dio – Uomo – Mondo). Sono invero le diverse concezioni del rapporto DUM, e del loro incontro-scontro i motori della storia del romanzo, così come lo sono della Storia dell’Uomo. E’ proprio da questi piani che chi scrive osa proporre una interpretazione ed una chiave di lettura diversa. Questa non nasce da una loro contestazione o da una polemica contro di essi. Si accettano infatti tutti questi piani di lettura, si opera però un loro spostamento che, peraltro asseconda il romanzo, presentato come memoria scritta prima della morte, dal monaco Adso da Melk, di fatti accaduti all’epoca del proprio noviziato. Resta così la centralità dei moventi che hanno origine nei diversi DUM, quella del “giallo”, delle vicende religiose e storico culturali, quella dei vari personaggi storici e non a cominciare da frate Guglielmo da Baskerville, ma essi non hanno più quella funzione di “soggetto” impropriamente loro attribuita da tante interpretazioni e letture del grande romanzo di Eco. Il ruolo di soggetto spetta unicamente ad Adso da Melk, è lui “Il” soggetto. Abbiamo allora un soggetto calato in una realtà storica e socio culturale, in una “situazione” – come direbbe Jean Paul Sartre – ed in essa chiamato a scegliere e dunque ad agire. Scelta ed azione in un confronto a 360° e serratissimo con la realtà e le sue vicende: scelta e destino. Confronto, scelta e destino su tutti i piani. Ma è proprio questa – e non quella del partito preso o imposto – la vocazione. Una vocazione autentica, scaturente – dopo il confronto non solo con i piani e le realtà citati, ma anche con quello della realtà scientifico tecnologica presente da subito e con quello della sessualità nelle sue diverse accezioni – da una fede genuina e vera, profonda. E’ questo il punto di arrivo vero in cui culmina nel suo terminare il romanzo. Ed esso con sottile finezza lascia indeterminata la questio se essa sia puramente religiosa o laica, se sia disegno del caso oppure di Dio: “Ma quale delle due venture si sia data, più recito a me stesso la storia che ne è sortita, meno riesco a capire se in essa vi sia una trama che vada al di là della sequenza naturale degli eventi e dei tempi che li connettono. Ed è cosa dura per questo vecchio monaco, alle soglie della morte, non sapere se la lettera che ha scritto (la propria vita ndr) contenga un qualche senso nascosto, e se più d’uno, e molti, o nessuno.” E’ quel limitare cui giunsero molti grandi laici o a cui decaddero anche molti grandi religiosi. E’ il limite cui giunse – tra gl’altri – ad es. Sartre che fu lì lì per convertirsi in campo di concentramento e che molti anni dopo, poco prima della morte anch’egli, ne “La ceremonie des adieux” ammetterà a Simone de Beauvoir, la sua compagna, che “… sì è vero siamo dei laici, dei grandi laici, anche se a volte abbiamo vissuto come se Dio ci fosse.” La storia dunque di una grande vocazione d’un uomo che sceglierà la via di San Benedetto, ma che anch’egli non riuscirà a levarsi oltre il limite che fu ad es. di Sartre, descritta da un grande laico di vocazione laica forse proprio per quel limite e perché quel limite è anche il suo. Per un finale diverso sarebbe occorso un autore diverso, uno che avesse saputo superare quell’impasse, quel limite: ad es. un monaco benedettino vero.
francesco latteri scholten.

Post Scriptum
Può essere forse opportuno aggiungere qualche parola sull’ impasse e sul limite di cui sopra. Per la comprensione è utile una bella immagine che è stata riproposta dalla “Fides et Ratio” di Papa Giovanni Paolo II: Giovanni e Pietro si recano di corsa al sepolcro di Gesù, Giovanni più giovane ed agile giunge prima ma si arresta alla soglia. Pietro lo raggiunge e la varca per primo. Giunti al limite è necessario oltrepassare la semplice “Ratio”, avere il coraggio del “tuffo nel vuoto”, dell’abbandono alla “Fides”. Stava quasi per riuscirci Sartre, non ci riesce Umberto Eco, ci riesce ad es. San Tommaso d’Aquino. E’ il primo ma grande passo del passaggio da una vocazione semplicemente umana o anche umanistica ad una vocazione e ad una scelta cristiana. Il secondo passo è quello della sequela: dei comandamenti, delle scritture, Antico e Nuovo Testamento, della sequela, soprattutto, di ns Signore Gesù Cristo, della meditazione di tutto ciò, perché divenga riferimento attivo e pratico per la propria vita. Va fatto qui in proposito un grande appunto di demerito ad Umberto Eco ed al suo romanzo. I monaci infatti non solo scandiscono la propria giornata, come ben mostrato, sulla preghiera, dalle Laudi a Compieta, ma dedicano espressamente diversi tempi nell’arco della giornata proprio alla meditazione, indispensabile alla sequela attiva di ns. Signore, ma di ciò non si trova traccia nel suo scritto. Eco, uomo di grande vocazione laica ma che non riesce ad elevarsi ad una vocazione cristiana, ci ridà uomini, anche grandi e di grande vocazione, ma che restano nel suo limite, che non riescono ad elevarsi ad una vocazione cristiana autentica. Hanno una vocazione, anche – a volte – una grande vocazione umana e, restando in ambito ad essa scelgono la vita religiosa. Proprio questa scelta – una grande scelta – se non riesce ai passi successivi, non riesce cioé ad assurgere, ad elevarsi, a vocazione cristiana autentica diviene deleteria. E’ il caso di tutti i monaci di Eco, compreso frate Guglielmo da Baskerville, il protagonista, ed Adso da Melk il soggetto. Nessuno di loro riesce ad “essere uomo nuovo in Cristo” (K. Barth, “L’ Epistola ai romani”), ciò che il vero cristiano e soprattutto il monaco ed il sacerdote dovrebbero essere. Caduca e deleteria diviene così anche la loro fede, che – come testimonia nelle ultime pagine Adso da Melk – non è più neppure fede in Gesù Cristo. Così però il romanzo stesso è solo il romanzo di vocazioni cristiane fallite. E’ un’opera al negativo. Ed è falsa, vi sono infatti tante testimonianze di vocazioni cristiane autentiche e pienamente vissute, per restare agli ambienti descritti da Eco ne cito solo due, ma superlative: San Tommaso d’Aquino e San Bonaventura.
francesco latteri scholten